Il Referendum consultivo, che si è tenuto nel Granducato di Lussemburgo il 7 giugno scorso – e per il quale ha potuto votare solo chi aveva la cittadinanza lussemburghese – è finito con un secco no. Uno schiaffo a chi sperava che l’integrazione del 46% dei cittadini stranieri potesse passare attraverso la partecipazione politica.

Il quesito che ci riguardava più da vicino era quello sull’allargamento del diritto di voto per le politiche ai cittadini stranieri. La condizione era  risiedessero nel Paese da almeno 10 anni e che avessero già votato alle comunali. Il diritto di voto era quello attivo, ovvero avremmo potuto votare per i rappresentanti dei partiti ma non essere eletti.

Specifico questa condizione perchè molti, forse a causa della mancanza di spiegazioni dettagliate su quelle che sarebbero potute essere le modalità di voto, forse hanno pensato che potesse diventare Primo ministro un cittadino straniero. Invece non poteva essere così.

Qualche dato: il Lussemburgo ha permesso alle donne di votare nel 1919, l’Italia solo nel 1946. Il 46% della popolazione residente ha passaporto di un altro Paese. Questo significa che 46 persone su 100 che lavorano, vivono e pagano le tasse, mandano i propri figli a scuola nel Granducato, senza essere rappresentate in Parlamento.

Quindi, tra quelli che sostenevano il SÌ, i più avanguardisti affermavano che, attraverso questa consultazione popolare si potesse lanciare un messaggio forte all’Europa: il Granducato non solo considerato come il Paese delle banche (o delle frodi) ma anche un modello democratico e di intergrazione.

Allargare il diritto di voto agli stranieri significava anche essere uguali di fronte alla legge. Come può, infatti, un governo eletto solo da poco più della metà della popolazione residente essere considerato il rappresentante legittimo dell’intera società lussemburghese?

I sostenitori del NO hanno a lungo insistito sul concetto di identità culturale che si esprime attraverso l’identificazione con i valori lussemburghesi e, soprattutto, l’apprendimento della lingua nazionale. Ora l’identità nazionale è una faccenda complessa, non la si può ridurre solo alla lingua. L’identità di ognuno di noi non è univoca ma in divenire ed è il risultato delle nostre convinzioni, delle nostre esperienze di quello che siamo, pensiamo e progettiamo.

Come possiamo solo essere solo italiani? O solo lussemburghesi ?

Specialmente come possono esserlo gli espatriati che una volta giunti in un nuovo Paese, apportano tutto il loro vissuto per “arricchire” il loro presente e il loro futuro?

È innegabile che il la lingua nazionale, ovvero il lussemburghese (codificato nel 1984, ndr) sia diventato, nel tempo, uno degli elementi essenziali (e discriminatori, a volte) di ciò che molti considerano l’identità nazionale ma il valore aggiunto del Lussemburgo è proprio che – a differenza di altri paesi europei –  il trilinguismo è un dato di fatto, che caratterizza non solo il sistema educativo ma l’intera società.

È vero che quando “noi stranieri” abbiamo avuto la possibilità di iscriverci alle liste elettorali per il voto alla comunali (2006) e alle europee abbiamo gioito di questa opportunità. Ma è anche vero che il tasso di iscrizione e conseguente partecipazione è stato abbastanza basso. Come se l’interesse di votare per eleggere (o essere eletti) per il sindaco e il rappresentante nazionale al Parlamento europeo non ci fosse realmente stato. Quindi, la responsabilità è di tutti.

Il primo ministro lussemburghese Xavier Bettel, il cui partito ha sostenuto il SÌ, durante il suo discorso di apertura del 35° Festival des Migrations, Cultures et Citoyennetè, nel marzo scorso, ha ricordato che: “Dare agli stranieri il diritto di voto non significa togliere diritti ad altri cittadini bensì renderli tutti uguali”. Allo stesso tempo, dopo il risultato negativo della consultazione ha chiaramente affermato che la volontà del popolo verrà rispettata.

Il 78% della popolazione si è espressa contro. È stato un NO chiaro e netto che ha stupito molti. Sicuramente che ha lasciato di stucco chi vive, convive e lavora insieme agli altri, senza guardare al passaporto di una persona. Senza fare distinzioni.

Il risultato del Referendum è stato molto inquietante considerando la massiccia dose di NO espressi. Molteplici i fattori che hanno giocato: c’è chi dice che è stato un voto anti-governativo; alcuni sostengono che il referendum non è stato spiegato correttamente ai cittadini (il diritto di voto era solo passivo); altri affermano che la popolazione non riconosce più i propri rappresentanti politici e sociali al potere (erano per il SÌ anche i sindacati, la stampa, la Camera di Commercio, le rappresentanze degli imprenditori e l’associazionismo). Il NO è stato percepito dagli stranieri come uno schiaffo in faccia, bruciante, contro la partecipazione e l’impegno che molti di noi assumono nei confronti della società che ci ospita. Pagare le tasse, mandare i figli a scuola, contribuire all’economia nazionale, partecipare alla vita sociale, religiosa, sportiva del Paese non basta. Il risultato ha, ancora una volta, evidenziato che per integrarsi  non basta parlare una delle tre lingue del Paese (lussemburghese, francese, tedesco). I lussemburghesi che hanno votato NO hanno ribadito che, secondo la loro opinione, la rappresentanza politica passa solo attraverso la cittadinanza. E la cittadinanza passa attraverso l’apprendimento della lingua.

Per diventare lussemburghesi è necessario imparare la lingua nazionale: una lingua codificata nel 1984 che ha i suoi poeti e scrittori moderni e contemporanei ma non ha una metodologia di insegnamento. Non c’è una cattedra di lussemburghese in nessuna università del mondo. Non è una delle lingue riconosciute dall’Unione europea. L’abbandono ai corsi di lingua per adulti è altissimo perchè spesso non si trovano professori preparati all’insegnamento. Tutti questi sono problemi che restano sul tavolo.

In conclusione: se la cittadinanza deve per forza passare per la nazionalità, allora i requisiti per prenderla passano attraverso l’esame di lingua. Se, invece, si introduce la cittadinanza di residenza – come da anni chiedono le piattaforme associative – estesa a tutte le persone residenti nello stesso spazio geografico vengono dati stessi diritti e si hanno stessi doveri. Per sopperire al deficit democratico e rendere i cittadini uguali meglio questa soluzione. Risiedo? Sì, quindi voto, anche senza avere la nazionalità.

Facilitare l’accesso alla nazionalità lussemburghese ed estendere il diritto di suolo (Ius soli) che oggi vale solo per i figli nati da almeno uno dei due genitori in possesso della nazionalità lussemburghese. Queste le semplificazioni che dovrebbero essere messe in atto dal governo Bettel per avanzare sul terreno dei diritti politici dei residenti senza passaporto nazionale.

 

L’articolo è stato pubblicato anche sul sito: Controlacrisi.org

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